lunedì 9 dicembre 2013

Post n°13 Terminalità


Volevo dedicare quest post agli operatori impegnati in cure palliative, analizzando i rapporti di dipendenza, le tutele come lavoratori e come persone, i trattamenti economici e lo sfruttamento.
Ma questa notte non riesco a  prendere sonno, mi vengono in mente considerazioni sulla definizione di "malato terminale"; a queste ho deciso di dare spazio.
Questa definizione che nel passato ho accolto ed usato non mi sembra più accettabile. In essa terminalità ha significato di fine, di totale mancanza di speranza. In fin dei conti definiamo terminale un paziente solo alla luce della nostra incapacità di porre rimedi e su questo facciamo un esercizio statistico escludendo tante altre eventualità come quella che in un mese si possono vivere cento anni ( vedi la Dama in rosa )
Terminalità in quanto fine è termine più negativo di morte che è trasformazione.
Immortalità dell'anima per chi ha fede, cambiamento di stato della materia che si organizza in altro modo da un punto di vista più strettamente scientifico.
Nessuno può contraddire il pensiero che saremo in ciò che verrà.
Inoltre usando l'etichetta di malato terminale si rischia di chiudere in un sorta di gabbia o categoria la persona malata, di fatto separandola ed escludendola dal rimanente contesto aumentandone il senso di solitudine.
Vorrei proporre di trovare un altra definizione o ancor meglio non definire affatto.
Ricordo  Gianni comunicare a Pasquale - Lei non ha più di tre mesi di vita - Gianni morì a causa di un infarto tre giorni dopo, Pasquale che io sappia vive ancora.
Al prossimo post per parlare di quanto promesso.

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