martedì 10 dicembre 2013

Le riflessioni di Serenella Romeo sul Post n°13

Ti chiedi se “malato terminale” è davvero la più appropriata espressione per definire la evoluzione ultima di una vita che si avvia alla conclusione.
Mi chiedo: sono abbastanza
umane per raccontare lo status, anche clinico dei suoi giorni sofferti, eppure fondamentali? Tu dici la  parola “morte” sarebbe  più sincera. Intendi in prossimità di morte credo. Ma indica solo la fine, non l’indefinito periodo di vita che richiede cure appropriate e protettive della fragilità e della diversa intimità del proprio tempo vitale.   La mia risposta  a questa domanda su  due parole correnti nella medicina palliativa che ti si è posta nell’illuminante silenzio di una notte insonne, d’istinto è no, non sono le più appropriate.  Riflettiamoci ancora e cerchiamo nel linguaggio  una più meditata, eppure tecnicamente corretta, formulazione sintetica di tutta la complessità della vita al crepuscolo.
Oggi  leggo in queste  due parole solo la tecnicalità medica e la preminente necessità burocratica di una definizione da formulario standard, che faciliti l’organizzazione sanitaria, più che una espressione di  meditata cultura medica e della persona.
 Sono due parole che non inglobano abbastanza la dignità umana, afflitta da  una  complessa modificazione del sistema vitale,  sofferente e necessitata di  appropriate cure.  Che anche a me non sembra debbano essere esclusivo campo degli oncologi, né tanto meno  dominio di profitto di una sanità privata, per  una inadeguatezza e indebito cedimento del settore pubblico.  
Le parole dei poeti  ci liberano dalle strettoie dell’esperienza  quotidiana e ci guidano nei dubbi.
Oggi  per rispondere alla tua domanda,  m’è capitato in mano “La voce del crepuscolo” di Derek Walcott, una riflessione sul  linguaggio delle arti popolari post-coloniali .   Dal suo libero orizzonte dei  Caraibi  mi ha suggerito che il nostro tema è  quello “ dell’uomo ridotto alla nuda vita”, una vita al crepuscolo, dove  “malato” dovrebbe chiamarsi  piuttosto “paziente”. Colui che  sopporta la fatica  del concludere i propri giorni e la sofferenza, ma anche  comprende che,  nel più alto punto del nostro percorso terreno, niente vale per noi più del poter svolgere fino in fondo la nostra essenza, insieme a chi ci sta intorno, con cura e rispetto della nostra dignità.
Medici, infermieri, psicologi e volontari di sostegno,  chiunque si con noi comunque fino alla fine  in relazione; persone accanto, amorevoli o amate o amiche.  Non estranee.
Più la vita si avvicina consapevolmente al trapasso, più mi pare  che sull’esistenza si alzi la luce del crepuscolo, “una luce ambra”,” un bagliore “che simile all’aureola di un antiquato lume d’ottone, è come il segnale che da bambini ci intimava di tornare a casa”. Credenti e non credenti, mutando forma siamo tutti destinati semplicemente a tornare a casa. Allora il compito per tutti è lenire la paura e rasserenare  questo ritorno all’origine, questo passaggio,  con ogni mezzo e “pallium” di medicina e di umanità. 
Procediamo  nella conoscenza e cerchiamo di  raffinare anche il linguaggio.
Non so se è appropriato alla medicina palliativa ma, quando “guarire” non è la meta,  quanto piuttosto declinare in modo appropriato  le cure che accompagnano l’ultimo tratto di vita sofferente,  io definirei le persone in cura “pazienti  di insieme”. L’ultima irreversibile fase delle patologie ha un termine certamente,  ma  forse mettere l’accento sulla complessità e sulla coralità delle azioni e dei sentimenti a sollievo e protezione, ha un suono  più coerente alla dignità umana .
Continuiamo comunque a riflettere e a cercare le parole più appropriate.
Serenella

Serenella Romeo 
Giurista
Bologna 10/12/2013


1 commento:

  1. Trovo la definizione di "paziente di insieme" molto rispondente al mio concetto di palliazione; ancora una volta mi hai preso per mano e condotto alla meta.
    Grazie

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