Ti chiedi se “malato terminale” è davvero la più appropriata espressione per definire la evoluzione ultima di una vita che si avvia alla conclusione.
Mi chiedo: sono abbastanza umane per raccontare lo status, anche clinico dei suoi giorni sofferti, eppure fondamentali? Tu dici la parola “morte” sarebbe più sincera. Intendi in prossimità di morte credo. Ma indica solo la fine, non l’indefinito periodo di vita che richiede cure appropriate e protettive della fragilità e della diversa intimità del proprio tempo vitale. La mia risposta a questa domanda su due parole correnti nella medicina palliativa che ti si è posta nell’illuminante silenzio di una notte insonne, d’istinto è no, non sono le più appropriate. Riflettiamoci ancora e cerchiamo nel linguaggio una più meditata, eppure tecnicamente corretta, formulazione sintetica di tutta la complessità della vita al crepuscolo.
Mi chiedo: sono abbastanza umane per raccontare lo status, anche clinico dei suoi giorni sofferti, eppure fondamentali? Tu dici la parola “morte” sarebbe più sincera. Intendi in prossimità di morte credo. Ma indica solo la fine, non l’indefinito periodo di vita che richiede cure appropriate e protettive della fragilità e della diversa intimità del proprio tempo vitale. La mia risposta a questa domanda su due parole correnti nella medicina palliativa che ti si è posta nell’illuminante silenzio di una notte insonne, d’istinto è no, non sono le più appropriate. Riflettiamoci ancora e cerchiamo nel linguaggio una più meditata, eppure tecnicamente corretta, formulazione sintetica di tutta la complessità della vita al crepuscolo.
Oggi leggo in queste due parole solo la tecnicalità medica e la preminente necessità burocratica di una definizione da formulario standard, che faciliti l’organizzazione sanitaria, più che una espressione di meditata cultura medica e della persona.
Sono due parole che non inglobano abbastanza la dignità umana, afflitta da una complessa modificazione del sistema vitale, sofferente e necessitata di appropriate cure. Che anche a me non sembra debbano essere esclusivo campo degli oncologi, né tanto meno dominio di profitto di una sanità privata, per una inadeguatezza e indebito cedimento del settore pubblico.
Le parole dei poeti ci liberano dalle strettoie dell’esperienza quotidiana e ci guidano nei dubbi.
Oggi per rispondere alla tua domanda, m’è capitato in mano “La voce del crepuscolo” di Derek Walcott, una riflessione sul linguaggio delle arti popolari post-coloniali . Dal suo libero orizzonte dei Caraibi mi ha suggerito che il nostro tema è quello “ dell’uomo ridotto alla nuda vita”, una vita al crepuscolo, dove “malato” dovrebbe chiamarsi piuttosto “paziente”. Colui che sopporta la fatica del concludere i propri giorni e la sofferenza, ma anche comprende che, nel più alto punto del nostro percorso terreno, niente vale per noi più del poter svolgere fino in fondo la nostra essenza, insieme a chi ci sta intorno, con cura e rispetto della nostra dignità.
Medici, infermieri, psicologi e volontari di sostegno, chiunque si con noi comunque fino alla fine in relazione; persone accanto, amorevoli o amate o amiche. Non estranee.
Più la vita si avvicina consapevolmente al trapasso, più mi pare che sull’esistenza si alzi la luce del crepuscolo, “una luce ambra”,” un bagliore “che simile all’aureola di un antiquato lume d’ottone, è come il segnale che da bambini ci intimava di tornare a casa”. Credenti e non credenti, mutando forma siamo tutti destinati semplicemente a tornare a casa. Allora il compito per tutti è lenire la paura e rasserenare questo ritorno all’origine, questo passaggio, con ogni mezzo e “pallium” di medicina e di umanità.
Procediamo nella conoscenza e cerchiamo di raffinare anche il linguaggio.
Non so se è appropriato alla medicina palliativa ma, quando “guarire” non è la meta, quanto piuttosto declinare in modo appropriato le cure che accompagnano l’ultimo tratto di vita sofferente, io definirei le persone in cura “pazienti di insieme”. L’ultima irreversibile fase delle patologie ha un termine certamente, ma forse mettere l’accento sulla complessità e sulla coralità delle azioni e dei sentimenti a sollievo e protezione, ha un suono più coerente alla dignità umana .
Continuiamo comunque a riflettere e a cercare le parole più appropriate.
Serenella
Serenella Romeo
Giurista
Bologna 10/12/2013
Giurista
Bologna 10/12/2013
Trovo la definizione di "paziente di insieme" molto rispondente al mio concetto di palliazione; ancora una volta mi hai preso per mano e condotto alla meta.
RispondiEliminaGrazie