mercoledì 29 maggio 2013

Avere in famiglia un malato terminale

Data di pubblicazione: 18/04/2011
 
Sono una mamma che da poco ha perso il figlio colpito da cancro. Con la mia testimonianza vorrei aiutare a capire cosa vuol dire avere in famiglia un malato terminale.
Tutto è iniziato nel giugno 2005 con segni di stanchezza, dimagrimento e difficoltà ad alimentarsi.

Sono seguiti controlli clinici, ricovero in ospedale con diagnosi quanto mai nefasta: cancro pancreatico ed endocrino. A luglio mio figlio è stato sottoposto ad intervento chirurgico e gli sono stati tolti vari organi. Quindi un lungo periodo di chemioterapia. In quella situazione, sentirsi dire dai medici «cercate di passare un Buon Natale» diventa un augurio assai poco rassicurante. Mio figlio, che ha subito dimostrato una forza d'animo insospettata anche per noi di famiglia, ci faceva coraggio: «Ogni giorno è una conquista» diceva.
Tra una chemio e l'altra ha conosciuto una ragazza meravigliosa che l'ha sposato pur sapendo delle sue gravi condizioni di salute. Lui non si è mai lasciato andare, ha trovato lavoro in una cooperativa nella quale tutti gli volevano bene ed ha fatto del bene a tante persone. Per il mio cuore di mamma vederlo così sereno e impegnato era di grande conforto, ma dentro di me erano sempre vivi il pensiero e la paura di perderlo: chi ha vissuto un'esperienza analoga può comprendere.
Quando si è sposato ho visto la felicità nei suoi occhi, ma anche la consapevolezza che forse avrebbe dovuto presto lasciare la sua «rosa bianca».
Sentire il figlio che ti chiede di prendersi cura della moglie e vederlo parlare della sua morte con estrema lucida tranquillità è straziante, si soffre molto e non si può fare nulla per lui se non assecondarlo e fare quel che ti chiede. Ha sempre affrontato tutte le indicibili difficoltà senza una recriminazione, senza una imprecazione. Con la collaborazione di una parente, ha scritto una lettera, il suo testamento spirituale, letta in chiesa al suo funerale tra la commozione generale. Un passo di quel testo vorrei ricordarlo: «Parto, ciao io vado. La valigia non serve e nient'altro mi serve... E poi cosa potrei infilare nella valigia? L'abbraccio della mamma e del papà? No, troppo grande! Le risate e le litigate con mia sorella? Non si possono contare! Gli scherzi con gli amici? Gli occhi di mia moglie? Un pezzo del tramonto che abbiamo visto insieme? La pioggia di quel giorno in cui abbiamo litigato e poi fatto pace? Le voci dei miei nipotini e il profumo di talco della loro pelle? Il mio piatto preferito? La mia musica preferita? Ma non c'è una valigia così grande. Perciò ho preso tutto: il bello e il brutto, l'utile e l'inutile e l'ho confezionato con cura, in piccoli pacchetti nascosti dentro di me al calduccio. E li terrò per sempre, anche quando il mio viaggio sarà finito e sarò arrivato a destinazione. Potrò aprirli ogni volta che vorrò e gustarli ogni momento»: sono trascorsi quasi sei anni dall'inizio della malattia di mio figlio, questo meraviglioso ragazzo coraggioso. So che molti ora possono capirmi.
Valeria Bonometti – Brescia
Tratto da: Giornale di Brescia, LETTERE AL DIRETTORE, 14 aprile 2011

Nessun commento:

Posta un commento