mercoledì 8 maggio 2013

Tralci di vite

Di Alfonso Barbieri

Sabato scorso, nelle prime ore di un  pomeriggio primaverile, mi trovavo dalle parti della Piramide Cestia.
Una prima visita domiciliare ad un paziente terminale in un quartiere costruito nel
ventennio fascista: le strade erano deserte, non girava un'anima a cui poter chiedere dell'indirizzo. Con qualche affanno infine individuai il numero civico nascosto dai rami di un glicine cresciuto lieve e prorompente sulla parete antica del palazzo.
Borsa da medico in mano, suonai al citofono.
Una voce rauca di risposta mi informò: "Purtroppo all'ultimo piano dottore".
Entrato nel vasto androne, dopo grandi vasi di asparagina compresi il perché: mancava l'ascensore. Salì con qualche indugio le scale ripide fino al quinto piano, aiutato dalla clemenza di Ippocrate che mi concesse di riposare al ballatoio di ogni piano. Sulla porta un omone mi stava aspettando scusandosi per il disagio, quando tra i piedi arrivò di corsa festante il cane di casa; annusò il risvolto dei pantaloni e mi condusse nella abitazione disadorna, dove in fondo al corridoio nella camera da letto, seduta tra i guanciali scomposti, stava la padrona, ansimante e rattristata, occhi assenti, catturati da un magnetismo invisibile, un vuoto senza nome.
Qualche breve preambolo e la visitai. La clinica mi lasciava un campo molto ristretto e scarsità di azione, i colleghi in ospedale avevano lavorato con scienza e alacremente. Non potevo aggiungere un granchè.
Allora presi a dialogare, a chiedere delle sue notti insonni, parlammo del cane, della famiglia e della sua disperazione. La donna conservava un accento meridionale nonostante gli anni trascorsi a Roma.
Era siciliana e il motivo focale dello scambio prese a rinverdire le vacanze al mare, le spiagge assolate, il ritorno delle barche con il pescato. Tramonti rosso fuoco, il sangue dell'Etna. I giochi infantili le corse sul bagnasciuga e di colpo Maria si ritrovò bambina nei discorsi e nelle emozioni. Il marito e il figlio in disparte restarono in silenzio per tutto il tempo. Alla fine Maria chiese con voce  tremula ma decisa:
"Quando ritorni"?
"Mercoledì" risposi.
Lei mi salutò, tese la mano verso di me abbozzando un sofferto sorriso. Il figlio accompagnandomi alla porta mi confidò che la madre non parlava così a lungo da quando le avevano riscontrato le metastasi.
Per le scale mentre scendevo a tornare verso i vasi con l'asparagina, sussurai al mio io il piacere di quell'incontro e raccontai al mio ego professionale frustrato che la favola dei  buoni sentimenti poteva continuare a vivere anche se la medicina era stata sconfitta dalla malattia.
Fuori un cielo limpido e azzurro come mai prima di sabato pomeriggio.

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