sabato 20 aprile 2013

Sintomi refrattari e sedazione palliativa: spunti di riflessione





Alessanddro Ferraccioli


Nell' attività di medico palliativista mi trovo spesso a trattare i sintomi refrattari ricorrendo alla sedazione palliativa/sedazione terminale; il sintomo refrattario viene definito come

sintomo non controllato in modo adeguato, malgrado gli sforzi tesi ad identificare un trattamento che sia tollerabile, efficace, praticato da un esperto, e che non comprometta lo stato di coscienza

Durante i primi anni di lavoro con i pazienti terminali, quando mi è stato necessario ricorrere alla sedazione, la maggior parte dell'attenzione si concentrava nel riconoscere il sintomo refrattario, assicurandomi di aver percorso tutte le possibili alternative farmacologiche prima di dichiararlo tale.

Impostata la sedazione su un paziente, faceva seguito il monitoraggio dello stato clinico e di coscienza: tutte le accortezze erano messe in atto perchè alcuna variazione passasse inosservata, al fine di evitare dolore e angoscia al paziente.

Dopo anni di esperienza, incorro in problematiche concrete ed incertezze, che raramente trovano spazio in sedi congressuali o riviste scientifiche.


Per introdurre spunti di riflessione mi servirò di due casi clinici, il primo in regime di assistenza domiciliare, il secondo in hospice.


La signora Silvana, di 87 anni, veniva inviata alle cure palliative in assistenza domiciliare perché affetta da neoplasia del collo, non suscettibile a cure causali; alla presa in carico non presentava sintomi locali o sistemici: la respirazione e la deglutizione erano normali e non lamentava dolore. Come atteso, la crescita della massa neoplastica si accompagnava alla comparsa di dolore di natura prevalentemente neuropatica: la paziente riferiva dolore di tipo trafittivo, di intensità fortissima, della durata di pochi secondi, sporadicamente durante la giornata; rispondeva in modo ottimale con  totale controllo della sintomatologia dolorosa alla somministrazione orale di gabapentin, al dosaggio di 300 mg tre volte al dì.

Nel corso di poche settimane la massa neoplastica aumentava ulteriormente di volume e si ulcerava progressivamente; l'emorragia inizialmente veniva controllata con l'assunzione orale di acido tranexanico, al dosaggio di 1000 mg tre volte al dì, e con applicazioni locali dello stesso farmaco.

In occasione di un cospicuo sanguinamento dalla lesione del collo, a motivo della refrattarietà al trattamento emostatico ulteriormente intensificato, la paziente veniva sedata.

Con la paziente stessa e con la figlia, familiare di riferimento, in più di un colloquio era stato concordato il possibile ricorso alla sedazione palliativa, se necessaria in caso di emorragia massiva, raggiungendo così un'alleanza terapeutica valida fino alla fine della vita.

Dopo 1,5 giorni dall'inizio della sedazione il sanguinamento si arrestava per riprendere a tratti solo dopo alcune ore. La paziente restava sedata e dopo 3 giorni dall'inizio della sedazione se ne registrava il decesso.


Il signor Angelo, di 53 anni, veniva ricoverato in hospice per neoplasia del colon retto localmente avanzata. Dopo 20 giorni di ricovero durante le ore notturne il paziente presentava emorragia massiva per lacerazione dell'arteria iliaca esterna, infiltrata dalla massa tumorale. Altri episodi di sanguinamento meno violento erano stati risolti  con medicazioni compressive della lesione, che però in quest'occasione risultavano inefficaci. In considerazione della refrattarietà del sintomo il medico di guardia rapidamente decideva di sedare il paziente. Dopo circa  un giorno il sanguinamento si arrestava, per riprendere dopo 1,5 giorni dall'inizio della sedazione, ma in maniera meno violenta, consentendone la gestione con medicazione compressiva.
Dopo 3,5 giorni dall'inizio della sedazione il paziente moriva.

I due casi mostrano eventi gravi, improvvisi, difficilmente tollerabili psicologicamente dal paziente. Viene richiesto un' immediato intervento del medico, che spesso si trova a dover decidere da solo: nel primo caso presso il domicilio del paziente, nel secondo durante le ore notturne in qualità di medico di guardia.
Il giudizio sulla refrattarietà del sintomo è di certo più immediato per sintomi tipicamente ingravescenti, quale la dispnea, rispetto a sintomi ad insorgenza rapida ed eclatante, che possono turbare ed impressionare il paziente e i sanitari che lo assistono.
Lo stress dei dei familiari, specialmente in regime d'assistenza domiciliare, può pesare molto sulle decisioni terapeutiche degli operatori.
La rapidità di insorgenza del sintomo porta a processi decisionali che difficilmente possono essere valutati e condivisi in equipe; a tal proposito per quanto possibile l'evoluzione della malattia e l'insorgenza di un sintomo refrattario andrebbero previsti al fine di favorire l'approccio terapeutico multidisciplinare. Si rischia di escludere la figura dell'infermiere e dello psicologo.
I due casi clinici riportati mostrano una differenza tra sintomi refrattari: sicuramente ingravescenti quali ad esempio la dispnea e il dolore, ad andamento non sicuramente progressivo, quale il vomito, il sanguinamento, il distress psicologico.
Le Raccomandazioni della SICP sulla Sedazione Terminale/Sedazione Palliativa del 2007 di certo costituiscono un valido orientamento per la corretta gestione dei sintomi refrattari; restano tuttavia aperti molti interrogativi.

Esistono lavori scientifici che valutino la sedazione palliativa considerando la differenza tra sintomi refrattari?
Può essere utile la distinzione tra Sedazione Palliativa in generale, volta ad alleviare i sintomi refrattari riducendo lo stato di coscienza, in misura adeguata e proporziata alla necessità, e Sedazione Palliativa degli Ultimi Giorni, intesa come Sedazione Terminale, così come proposto dalla Società Spagnola di Cure Palliative?
Può rendersi necessaria una sedazione intermittente in alternativa alla sedazione continua?
Alla luce di quanto esposto potrebbero essere suggeriti ulteriori studi clinici e revisione della letteratura.


















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