giovedì 25 aprile 2013

Iperglicemia ipertrattata

     




Elena Cicconetti




Ogni giorno nel mio ambulatorio mi prodigo con impegno affinché il diabete non provochi nel tempo complicanze. Controllo il referto dell'esame del fondo dell'occhio, la presenza di microalbumunuria, esamino
il piede, i vasi il cuore. Ogni volta cerco di stipulare un patto con il paziente in modo che si prenda cura di se assumendo correttamente la terapia e facendo regolarmente l'autocontrollo della glicemia capillare.


Che cosa accade se manca il tempo e l'aspettativa di vita è breve per sviluppare le complicanze?

Il dovere del medico è di assicurare al paziente la minore sofferenza possibile che la glicemia si alzi tanto da provocare i sintomi dell'iperosmolarità o si abbassi in modo da provocare quelli dell'ipoglicemia.

Se manca il tempo, si perde il dovere di ottenere glicemie ottimali e si acquista quello di non infliggere una sofferenza inutile.

L'iperglicemia suscita ansia nei pazienti e nei loro familiari, convinti che valori anche accettabili possano provocare conseguenze acute gravi.

L'iperglicemia invece solo in rare occasioni provoca conseguenze fatali.

Nei diabetici di tipo 1 che non producono insulina, l'iperglicemia può essere prodromo della cheto-acidosi. Questa complicanza acuta si sviluppa quando la produzione di insulina è insufficiente a garantire un corretto metabolismo. In questo caso si instaura una disidratazione con perdita  di potassio e si producono sostanze tossiche come i chetoni che abbassano il Ph ematico con conseguenze gravissime se non tempestivamente trattate.
Nei diabetici di tipo 2 che ancora possiedono una riserva pancreatica di insulina, la cheto-acidosi è rara. L'iperglicemia può causare in questi pazienti un aumento dell'osmolarità plasmatica con gravissima disidratazione. In genere il coma iperosmolare si verifica in soggetti anziani non autosufficienti impossibilitati ad assumere liquidi in modo autonomo.

Il malato oncologico alla fine della vita non ha sicuramente bisogno di prevenire le complicanze croniche del diabete e necessita invece di evitare valori glicemici molto elevati per scongiurare
il pericolo della cheto-acidosi o dell'iperosmolarità.

In letteratura esistono pareri contrastanti riguardo ai valori accettabili in questi pazienti.

I medici delle cure palliative si orientano verso valori di glicemia tra  i 260 e 360 mg/dl, mentre i diabetologi sono favorevoli a mantenere valori tra i 180 e 270 mg/dl. Questi valori sono ben lontani dai valori glicemici che si devono raggiungere nella popolazione diabetica in genere.

La terapia del diabete nel paziente oncologico alla fine della vita necessità di una importante distinzione. Se il paziente è già diabetico di tipo 1 o diabetico di tipo 2 in fallimento secondario, è assolutamente indicata la terapia insulinica. Non bisogna però intendere tale terapia come terapia insulinica "intensiva" con tre somministrazioni di insulina rapida ai pasti e analogo lento la sera, ma come terapia idonea a tamponare l'iperglicemia, magari utilizzando un analogo rapido se il paziente si alimenta, o decidere per un'insulina basale nei soggetti che non si alimentano. E' importante che non si faccia correre il rischio di ipoglicemia al malato che aggiungerebbe una inutile sofferenza.

Anche l'autocontrollo delle glicemie domiciliari in questi pazienti perde di efficacia. La frequenza del controllo glicemico  dovrebbe essere ridotta al minimo al fine di non infliggere inutili "stilettate" e il controllo eseguito solo al fine di prevenire la cheto-acidosi, l'iperosmolarità o l'ipoglicemia.



Una volta che la terapia ha reso stabili le glicemie, potrebbero essere sufficienti anche tre controlli a settimana. E' logico che se le condizioni del paziente dovessero cambiare esponendolo al rischio di ipoglicemia (inappetenza, metastasi epatiche con ridotta produzione di glicogeno ecc.) si può incrementare il controllo delle glicemie capillari al fine di modificare la terapia insulinica.


Nei diabetici di tipo 2 che assumono gli ipoglicemizzanti orali, dovrebbero essere evitate le sulfaniluree a lunga durata di azione (glicazide, glimepiride, glibenclamide) e preferire le glinidi che hanno una breve emivita evitando però farmaci che interferiscono con il citocromo P450 . Anche in questo caso la terapia non deve esporre il paziente al rischio di ipoglicemia.

La metformina dovrebbe essere invece evitata per i suoi effetti collaterali gastrointestinali come la nausea, il vomito e la diarrea ai quali i malati oncologici sono già predisposti.

Se il controllo glicemico del paziente è stabile, la frequenza delle rilevazioni capillari può essere ridotta ad una a settimana.

Una corretta informazione sulle conseguenze dell'iperglicemia potrebbe comportare una riduzione dell'ansia dei pazienti, dei familiari e anche degli operatori sanitari, ansia che induce a praticare terapie troppo aggressive tali da provocare ipoglicemie e ad eseguire controlli della glicemia capillare ingiustificati. In uno studio è stato riportato che il 76% dei pazienti oncologici alla fine della vita era stato sottoposto al controllo della glicemia il giorno della morte.

Il diabete è un killer per le persone con una lunga aspettativa di vita e può rappresentare invece una causa inutile di sofferenza psicologica e fisica per il malato alla fine dell'esistenza.



Bibliografia:

QJ Med 2012; 105: 3-9
Palliat Med 2006; 20: 197-203  

Elena Cicconetti Diabetologa ASL Roma B





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